Al tramontare del comunismo della steppa Vladimir Putin, l’uomo più popolare di Russia dai tempi di Yuri Gagarin, ha mischiato coraggio e strategia, sicurezza e burocrazia, frullato insieme questi elementi e ottenuto un cocktail che ha fatto digerire a tutti: uno Stato autoritario con un grande potere, sia pur sovrastimato rispetto alle sue reali capacità. Anzitutto economiche. La Russia di oggi è però un Paese diverso da allora: mostra alcune preoccupanti derive, non soltanto in ordine alla libertà di espressione e di diritti civili, ma anche e soprattutto in relazione alle possibilità di crescita e alle prospettive di sviluppo. Putin sa che il suo popolo è in grado di sostenere l’isolamento e le varie forme di carestia: la resilienza alle sanzioni economiche occidentali ne è la miglior dimostrazione. Ma a tutto c’è un prezzo. Le sue ultime scelte hanno generato inevitabilmente stagnazione e malcontento, due affluenti che portano a ingrossare quel grande fiume carsico dell’opposizione, che scorre da tempo sotto le certezze del consenso di cui godono il Cremlino e il suo principale azionista. E di cui potrebbe ancora approfittare il suo unico reale nemico: Alexei Navalny.